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Terence Holler, cosa mia (Alberto Bogo, 2024)

Come spettatore cinematografico appartengo alla categoria degli onnivori; pur prediligendo alcuni temi e generi, come il western e l’horror (nel passato mi sono interessato in particolare al Mockumentary e al Found Footage stile The Blair Witch Project), la passione per i film mi porta a guardare un po’ di tutto. Ultimamente, e dico purtroppo, sballottato tra le numerose piattaforme streaming, percepisco una certa stanchezza nell’offerta; mi trovo a passare (sprecare) sempre più tempo cercando qualcosa di valido da guardare e, quando finalmente inizio la visione, non è infrequente la delusione di fronte a pellicole dalla scarsa sapidità. Gran parte dei prodotti odierni, pur tecnicamente ineccepibili, appaiono come anestetizzati, incapaci di creare quadri in movimento che possano rimanere impressi nella memoria (pensiamo alla debolezza iconografica degli ultimi lavori di due mostri sacri come Ridley Scott e Martin Scorsese). Alla fine torno sempre a frequentare i vecchi film, magari rinfrescando il ricordo di una vecchia e sgranata VHS con l’accecante alta definizione di qualche restauro in 4K; tanto per citarne alcuni, su Prime Video sono brevemente transitati Zombi di George Romero e Apocalypse Now Final Cut di Francis Ford Coppola, mentre nelle grandi sale hanno trovato posto Audition di Takashi Miike (non è male neanche il romanzo di Ryū Murakami da cui è tratto, recentemente tradotto da Atmosphere Libri) e The Warriors di Walter Hill. Oltre a viaggiare nel glorioso passato del Cinema, ogni tanto è bello anche scoprire lavori che escono dagli schemi, rigidamente fuori dal circuito mainstream; il caro amico Alberto Bogo, di cui ho già parlato in altre occasioni (per i precedenti Extreme Jukebox, Terror Take Away, Terror Zone) e che continua titanicamente a scrivere-dirigere film indipendenti come fossero dichiarazioni d’amore per la Settima Arte, mi ha regalato un’interessante ora e mezza facendomi vedere in anteprima la sua ultima fatica. Sto parlando di Terence Holler, cosa mia (trailer all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=AgWGQMxzeNY), un documentario sulla vita del cantante (al secolo Mario Tarantola, Brooklyn 15 aprile 1968) degli Eldrich dopo la sua uscita dal gruppo. Per chi, come me, non ha confidenza con la musica metal, i primi minuti dopo gli efficaci titoli di testa possono apparire stranianti; si entra subito nel vivo della persona, dando per scontato e come definitivamente concluso il trentennale capitolo della band livornese che ha contribuito a fondare nel 1991. L’impressione è quella di assistere a un’operazione che si impegna a togliere la maschera al personaggio pubblico per concentrarsi sull’uomo, un cinquantacinquenne un po’ appesantito dagli anni ma dall’atteggiamento ancora provocatorio e irriverente, soprattutto per il linguaggio particolarmente sboccato; questo smascheramento è organizzato in “track” (e ghost track) come fosse un disco: la musica fa da collante per i contenuti veicolati ed è un importante complemento delle immagini (leggo nei crediti che oltre ai successi degli Eldritch, sono presenti brani di band quali Frozen Crown, Deathless Legacy, Theatres des Vampires, Be The Wolf e Trick Or Treat), caratterizzando in maniera originale ogni traccia. L’estrema varietà dei capitoli rende così Terence Holler, cosa mia un oggetto strano, un prisma che riflette con diversi colori il proprio soggetto. Per spiegare meglio cosa intendo, a costo di rischiare qualche spoiler, può essere utile scorrere la tracklist, ma già la prima sezione è leggibile come una dichiarazione d’intenti, perché mostra con orgoglio lo scarto che la separa dagli altri documentari biografici. Le interviste a ex fidanzate e amici del cantante (tra cui Cristina Scabbia e Andrea Ferro dei Lacuna Coil) all’apparenza raccontano la solita vicenda di una persona che ha vissuto un rapporto conflittuale con l’amore, incapace di tenere in piedi le relazioni sentimentali ma contemporaneamente pieno di passione; lo stesso racconto emerge dall’intervento di Sara Boero, esperta di comunicazione e youtuber, nonché mia sorella (che sorpresa trovarla nel film!), che analizza con puntualità alcuni testi di Holler. Dietro questi contenuti si percepisce chiaramente la volontà del regista di costruire qualcosa di stonato, tanto che nel montaggio sceglie di alternare le opinioni degli intervistati con la viva voce del soggetto; è la conversazione con lo stesso Holler che sembra negare quanto viene detto, in particolare per il linguaggio sboccato che utilizza e per le insistite uscite sessiste, in questa sede difficilmente ripetibili. Nel resto del metraggio Alberto Bogo alza il tiro e spinge il protagonista in situazioni quasi limite, come quando da ragazzi si “metteva in mezzo” qualcuno per farsi due risate di gruppo; la cosa originale è che lo fa a uno dei sui idoli musicali, forse con la volontà di grattare la scorza di un rocker in là con gli anni, disponibile al gioco ma come bloccato nel proprio personaggio, quello di chi si gode la vita e sostiene (in un triviale toscanaccio) “m’importa una sega” anche di fare azioni sul confine della legalità. È così che Alberto, mostrandosi direttamente, mette Terence Holler prima tra le braccia di una “Love Guru” (Track 1) per un massaggio (piuttosto spinto) che dovrebbe insegnarli ad annullare se stesso, poi in una sorta di carnaio umano (stile Twister ma più attorcigliato) da cui deve uscire come fosse un nascituro durante il parto (Track 5: In another life i would still be a singer), per ottenere un nuovo imprinting che gli permetta di avere una vita nuova e costruita su “presupposti diversi da quelli in cui ci siamo identificati” (sic!). In quest’opera di correzione verso un futuro migliore, quasi fosse una terapia psicanalitica per risanare ferite psicologiche non pienamente individuate, Bogo allestisce un percorso a tappe che viaggia anche attraverso la dimensione del passato e del presente; il tempo che fu viene rappresentato con un viaggio in America della troupe (Track 3: Your footsteps, our origin), che pedina il cantante nei luoghi in cui ha vissuto la propria giovinezza, il presente con un servizio sul ristorante di Holler (“La Porkeria” che serve solo carne, in barba al politicamente corretto in cucina; Track 2: Hunger, deities and sweat) e la ripresa di una serata a casa sua tra giochi di società, bevute e iperbolici racconti di prodezze giovanili (Track 4: A (one) night (stand) with Terence Holler).

Il film termina con la Track 666: If I were like you, I would not be me, che segna la ripartenza di Holler, con un concerto, la pubblicità della nuova band e un party nella sua villa; in questo momento si ha finalmente un quadro completo di cosa abbiamo visto. Per dare un’immagine a tutto tondo del musicista ed evitare i soliti  ritratti agiografici o i facili maledettismi, Alberto Bogo ha scelto la strada più difficile; ha posto al centro il corpo di Mario Tarantola e del suo alter ego artistico Terence Holler (ma non si sa, come indicano i titoli di testa, chi dei due reciti la parte dell’altro), manipolando il mondo intorno a lui (o inventandolo, come fanno i bravi registi) e cogliendo brevi finestre di verità… in qualche modo la pellicola chiude un cerchio: parte con un iconico cantante metal in piena crisi di mezza età e lo ripropone, a fine riprese, come un cantante sempre di mezza età ma pronto a reinventarsi.

 
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Pubblicato da su gennaio 18, 2024 in Recensioni di film

 

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Buzzati al Cinema (seconda parte)

Dopo Sette piani, l’altro racconto che trova un adattamento cinematografico è Eppure battono alla porta, del 1937. Il testo di partenza aveva come elemento centrale la sensazione di pericolo (un fiume si sta ingrossando) incombente sulla quotidianità di una famiglia benestante, che cerca di continuare a vivere come nulla fosse; dell’originale la pellicola Contronatura (Antonio Margheriti, 1969) utilizza solo l’ambientazione oppressiva della villa e l’atmosfera misteriosa, relegandole alla conclusione. Il film ha invece la forma di ghost story gotica, efficace nel costruire un terrore psicologico ma debole per l’eccessivo numero di flashback e per una trama poco lineare.

Più fedele risulta Il deserto dei Tartari (Valerio Zurlini, 1976); il romanzo esce nel 1940, alla vigilia della guerra, e tra le sue pagine si fiutano le tracce dei sei anni passati al “Corriere della Sera”, che lasciarono all’autore la sensazione spiacevole del monotono ripetersi di gesti quotidiani. Alla parabola esistenziale dell’ufficiale Giovanni Drogo è possibile appassionarsi proprio perché metafora di quel lento fluire di avvenimenti, speranze e sogni (atrofizzati dal passare del tempo), che è la vita della maggior parte degli uomini.  Drogo attende in una fortezza ai margini dell’impero l’arrivo di un nemico; la guerra è l’unico modo per riscattare i lunghi anni trascorsi nel rispetto dei regolamenti e nelle pratiche militari. I Tartari purtroppo arriveranno troppo tardi, al momento del ritiro. L’attesa è la costante di tutto il romanzo ma esprime bene anche la lunga sofferenza produttiva per realizzare il film, opera voluta da molti, stregati tutti dal racconto originale. Negli anni sessanta fu Vittorio Cottafavi, patriarca di film mitologici, ad aggiudicarsi l’opzione sul libro; per un attimo sembrò vincitore in una contesa che coinvolse anche Vittorio Gassman. Fu poi la volta di Morris Ergas, per la regia di Claude Sautet, e dell’attore Jacques Perrin che nel 1967 comprò i diritti solo per calarsi nei panni del protagonista (come effettivamente successe alcuni anni dopo); infine del bolognese Valerio Zurlini, che aveva già interpretato sul grande schermo due scrittori come Vasco Pratolini (Cronaca familiare, 1962) e Ugo Pirro (Le soldatesse, 1966). Zurlini è un artista di temperamento molto diverso da quello di Buzzati, di differente ispirazione; il suo lavoro su Il deserto dei Tartari tende a privilegiare un tono più illustrativo che creativo, sempre però di grande decoro formale: “il tema buzzatiano dell’attesa si traduce in immagini di raro fascino emotivo, che ben rendono il dramma impalpabile del protagonista e la metafora della condizione umana” (Michele Amato, Buzzati rivivrà a Cortina in una pellicola di Olmi, in “La gazzetta delle Dolomiti”, 3 febbraio 1992, p. 6). La vita di Giovanni Drogo si apre a interpretazioni simboliche, si suggerisce l’invisibile nascosto oltre i fatti, ma manca l’indeterminatezza tipica della scrittura di Buzzati; Zurlini tende a localizzare luoghi e tempi, tanto che la storia originale, da mito esistenzialista, piega verso la tragedia storica: proiettati al confine orientale dell’Impero Austro-Ungarico (verso la Macedonia), assistiamo alla fine di tutta una casta, quell’aristocrazia militare che non sopravviverà alla Grande Guerra.

Lo stesso lavoro di collocazione storica avviene nel successivo film ispirato al mondo poetico dello scrittore e in particolare al suo secondo romanzo, Il segreto del bosco vecchio (1935). Il regista Ermanno Olmi (1931-2018), che aveva lavorato con Buzzati per un ritratto filmato della galleria di Milano, dirige Il segreto del bosco vecchio (1993) operando con grande pazienza; filma per oltre un anno i paesaggi cadorini (tra Cortina e Auronzo) in attesa dei mutamenti climatici, della neve, della giusta sfumatura nei colori, pronto a raccontare il tempo e le stagioni nel loro scorrere. Nella messa in scena preferisce il paesaggio (fotografato da Dante Spinotti) alle persone, piccole di fronte all’immensità della natura, e sceglie di cogliere la dimensione favolistica in un contesto realistico, senza utilizzare particolari effetti speciali (gli animali parlanti vengono semplicemente ripresi mentre voci fuori campo parlano per loro). I cambiamenti più evidenti rispetto al libro sono il taglio di quelle parti poco rappresentabili su grande schermo e la riduzione nella storia del peso del protagonista bambino a vantaggio del personaggio del colonnello Procolo: “A un Olmi sessantenne interessa piuttosto scrutare nell’animo del suo quasi coetaneo protagonista Villaggio, andando a cercare il Procolo che è in lui (o forse in entrambi) e anche, in qualche misura, nei personaggi finora interpretati dall’attore” (Giancarlo Zappoli e Claudia Bersani, Buzzati e il cinema, Milano, BookTime, 2022, p. 44). È l’adulto a compiere un percorso di formazione, ma al contrario, conquistando una natura infantile; la sua conversione alle leggi del bosco si compie infatti con l’atto di ubbidienza a un rituale misterioso che “può essere accettato solo dalle anime innocenti”. Olmi inoltre vede con occhio cristiano il portento pagano di un ecosistema brulicante di folletti, spiriti, animali e venti parlanti; nel piccolo cosmo naturale lasciato in eredità al colonnello Procolo, a patto di non intaccare il Bosco Vecchio, il regista stesso ricorda il passo del Genesi in cui il Creatore consegna all’uomo il mondo, gli raccomanda di godere degli alberi e dei frutti ma di evitarne uno: “Le analogie sono più d’una: oltre alla trasmissione di un mondo che l’uomo può utilizzare in modo armonioso o al contrario può distruggere, ci sono anche qui la tentazione della trasgressione  e il castigo che ne consegue […] la natura si manifesta agli uomini con fenomeni spettacolari e inequivocabili adatti alla fiaba, offre un contesto di riferimenti certi dove anche la morte non è un fatto drammatico ma fa parte di questo contesto” (Daniela Pasti, Le favole di Olmi, in “La Repubblica”, 18 agosto 1993, p. 23).

La lezione di Olmi è ripresa da Mario Brenta che, con il suo Barnabo delle montagne (1994, terzo film in trent’anni), costruisce una straordinaria esperienza visiva: “Un’attenzione estrema alla costruzione dell’inquadratura, spesso con un’alternanza tra movimenti di macchina quasi impercettibili e riprese fisse, e l’importanza data al contesto naturale, sia sul piano visivo che su quello sonoro, che vede sin da subito sottolineare anche il più piccolo rumore” (Giancarlo Zappoli e Claudia Bersani, Buzzati e il cinema, Milano, BookTime, 2022, pp. 52-53). I campi lunghi e lunghissimi offrono un’immagine delle montagne di grande suggestione, cornice ideale per far vivere Barnabo, la guardia montana in cerca di riscatto dopo un’azione poco eroica. Il protagonista Marco Pauletti, nella vita vero vigile ambientale di Belluno (città, quasi a far quadrare il cerchio, da cui proviene anche Buzzati), si muove a proprio agio in una natura appartenente al passato dello stesso Brenta; il regista ricorda sempre le lunghe camminate che da bambino amava fare con il padre: “luci, rocce, colori, mi hanno riportato a un tempo lontano che per tanti anni avevo riposto in soffitta”. Anche i film tratti da Buzzati hanno portato lo spettatore, partendo dalla contemporaneità di Un amore, indietro nel tempo, in un percorso al contrario nella cronologia delle sue opere (Barnabo delle montagne è infatti il suo primo romanzo); con il film di Brenta, lo spettatore riesce veramente a rispecchiarsi in ciò che rende magica la scrittura di Buzzati… l’universalità di ogni racconto: “Un’immagine, un particolare, un suono, uno sguardo, un viso, rimandano sempre, in questo film, a qualcosa che appartiene già alla memoria collettiva e ne propongono la riattualizzazione quasi costante” (Attilio Coco, Barnabo delle montagne, in “Segno Cinema”, n. 68, luglio-agosto 1994).

Questo richiamo alla memoria viene ripreso anche nel recente La famosa invasione degli orsi in Sicilia (2019), realizzato dall’illustratore e fumettista Lorenzo Mattotti (1954); il testo originale (apparso nel 1945 sulle pagine del Corriere dei piccoli), che nasceva posteriormente alle illustrazioni dello stesso Buzzati, ha trovato nell’arte di Mattotti una fedeltà grafica e tematica che ne preserva il mito: strutturando la storia come racconto nel racconto, la pellicola dichiara in maniera esplicita la volontà di porsi in continuità con il modello, che può così continuare a parlarci a distanza di decenni e attraverso linguaggi diversi.

 
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Pubblicato da su giugno 3, 2023 in Altro

 

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Buzzati al Cinema (prima parte)

È sempre molto interessante ripercorrere le influenze reciproche che avvicinano il Cinema alla Letteratura; tra i volumi distribuiti lo scorso anno per commemorare il cinquantesimo anniversario dalla morte dello scrittore Dino Buzzati (1906-1972), si può trovare anche il saggio di Giancarlo Zappoli e Claudia Bersani Buzzati e il cinema (Milano, BookTime, 2022), che ripercorre le trasposizioni filmiche dei suoi romanzi. La lettura del testo mi ha fatto venire voglia di ripensare all’argomento, di cui mi ero già interessato alcuni anni fa; volendo approfondire il rapporto che lo scrittore bellunese ha instaurato con le immagini in movimento ci si scontra però con diversi ostacoli. Un primo problema è rilevabile nelle molte occasioni che lo vedono coinvolto in prima persona, sia come attore (Vacanze nel deserto, Valerio e Giancarlo Romani Adami, 1971) che come sceneggiatore; come esempi si può accennare alla sua stesura del commento al documentario Il postino di montagna (Adolfo Baruffi, 1951) e all’esperienza, vissuta accanto a Federico Fellini, nel “non-film” Il viaggio di G. Mastorna, progetto che, stesura dopo stesura, ha modificato la propria struttura fino a trasfigurare nel bellissimo fumetto illustrato da Milo Manara. Molto difficile è anche parlare delle pellicole che si ispirano direttamente alla sua narrativa; esaminarle significa comprendere lo sforzo che ha richiesto la loro realizzazione, la fatica di dover evocare, come sottolinea Piero Zanotto in un saggio di alcuni anni fa, attraverso la concretezza di immagini in sé definite, atmosfere che “nell’originaria pagina letteraria si rivolgono per la loro cifra metafisica alla complicità immaginativa del lettore”. Inoltre, per realizzare un lavoro completo, sarebbe necessario recuperare i cortometraggi prodotti all’estero e i tanti adattamenti dei racconti per la televisione; navigando nel Web, tra i primi si trova notizia del francese La ballade d’un condamné (Anne-Laure Brénéol, 1993) da Quiz all’ergastolo, tra i secondi Un cas intéressant (Pierre Badel, 1963) da Un caso clinico (soggetto anche del tedesco Das Haus mit den sieben Stockwerken di Frank Guthke, 1968) e Le chien qui a vu Dieu (Paul Paviot, 1970) da Il cane che ha visto Dio. Sul piccolo schermo in Italia apparve invece lo sceneggiato La giacca stregata (Massimo Franciosa con Alberto Lionello), trasmesso il 26 settembre 1969 e tratto dall’omonimo testo presente nella raccolta La boutique del mistero (1968).

Tornando a parlare di cinema, la prima opera di Buzzati tradotta in pellicola è anche quella di più recente ispirazione e forse la più discussa; il romanzo Un amore fu infatti presentato a Milano nell’aprile 1963, cioè appena due anni prima della pellicola omonima, e creò intorno a sé un grande interesse. Le cronache del periodo riportano il clamore di questo caso editoriale, ovvero la virata dell’autore (apprezzato nelle atmosfere magico-realistiche) in direzione di un verismo psicologico, carico di dolente sincerità; Buzzati mette a nudo la propria anima in maniera violenta, svela la passione (e la sessualità) che si cela dietro la maschera delle ipocrisie e delle convenzioni sociali. Quando il 4 febbraio 1965 viene dato il primo ciak al film di Gianni Vernuccio è grande l’attenzione dei giornali; Buzzati stesso si mette in gioco, è presente sul set, offre la sua persona al pubblico come ha offerto il suo mondo privato alle pagine di Un amore. Ma dall’esperienza ottiene solo delusioni; Vernuccio, uscito dal Centro sperimentale di cinematografia e documentarista presso il Luce, già regista di Uomini senza domani (opera prima presentata a Venezia nel 1947) e di altre pellicole minori, ricrea l’atmosfera triste e torbida del romanzo (una Milano umida, fatta di fumo, che sembra appiccicarsi addosso alle persone) ma non riesce a far decollare mai il film.

In un contesto di cinema commerciale come quello in cui nasce tutta l’operazione, il regista ha il merito di far conoscere al grande pubblico il contenuto del romanzo ma viene meno nel tratteggiarne i caratteri; per evitare la censura rinuncia anche ad alcune situazioni scabrose e il suo lavoro finisce per essere poco apprezzato dalla critica: “Il meno che si possa dire è che ne risulta una situazione piuttosto statica, già tutta scontata ed esaurita dopo il primo quarto d’ora […] A rendere tutto più schematico e superficiale contribuisce non poco l’inadeguatezza dell’ambientazione, risoluta nei più consunti clichés della Milano – bene” (Sandro Zambetti, “Cineforum”, n. 57, set. 1966). Il mondo borghese contemporaneo è il soggetto anche di Il fischio al naso (1967), fortemente voluto da Ugo Tognazzi che scrive (dopo aver scartato il primo trattamento dello scrittore) e dirige. Grazie all’aiuto di Rafael Azcona, già collaboratore di Marco Ferreri (amico di Tognazzi e comparsa nel suo film), l’attore carica le situazioni di grottesco, ridicolizzando attraverso l’esagerazione satirica la discesa nel mondo dell’assistenza medica di Giuseppe Inzerna, industriale. Ricoverato per un lieve disturbo respiratorio Tognazzi sale (nel racconto Sette piani procede verso il basso) i piani di un ospedale diretto al reparto dei malati gravi; lo scontato esito fatale rende la struttura ospedaliera un carnefice privo di motivazioni, un luogo dove il destino del malato è già segnato.

Ne Il fischio al naso il viaggio verso la morte dell’uomo si presenta come complotto organizzato, o almeno auspicato, dai suoi familiari, consumatori senza freno, scialacquatori, individui degenerati negli affetti e insensibili all’umanità; una razza cui appartiene anche il protagonista che verrà “gettato via” proprio come i lenzuoli ed i vestiti di carta prodotti nella sua fabbrica. Al film manca il dramma esistenziale, la forza allegorica del modello; qui la malattia è solo l’incidente che condanna l’uomo moderno ad essere riciclato anzitempo, ad abbandonare il proprio posto nella società del benessere.

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Pubblicato da su Maggio 31, 2023 in Altro

 

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Terror Zone (Alberto Bogo, Italia, 2022)

Mi collego idealmente (e tramite link) alla pagina che avevo scritto, esattamente due anni fa, sull’amico Alberto Bogo, cineasta indipendente dedito con invidiabile abnegazione alla passione per la Settima arte; Alberto è tornato a girare un nuovo lungometraggio di genere partendo dalla materia scottante della recente pandemia, spunto che germina in uno psicodramma a tinte horror-comedy (ma confinarlo in una sola categoria è riduttivo e improprio); il virus non rimane sullo sfondo ma si incarna nella stessa materia cinematografica, tanto che nelle strade della città, vuote per il lockdown, gira un serial killer con la capoccia decorata come la superficie esterna del SARS-CoV-2: questo essere orrorifico è l’azzeccata allegoria di quanto, come ci insegna la cronaca, le costrizioni e le paure abbiano fatto emergere tanti mostri che restavano latenti nella quotidiana socialità. Il film si intitola Terror Zone, quasi a porsi in continuità con il precedente Terror Take Away (2018) ma anche con Terror Firmer (1999), vera e propria summa del catalogo della Troma, casa di produzione statunitense famosa per realizzare prodotti pieni di idee (spesso politicamente scorrette) a basso costo realizzativo. Il richiamo alle pellicole di genere del passato non si ferma qui, anche la struttura a episodi (cinque) collegati da una cornice richiama subito alla mente i bei Tales from the Crypt (1989-1996) di una volta, sostituendo Uncle Creepy con un misterioso speaker radiofonico.

Senza entrare nello specifico di ogni episodio, Terror Zone funziona perché riesce a tenere unito il contenuto narrativo (condito da una buona dose di ironia), costruendo richiami quasi subliminali tra una storia e l’altra (la sparizione del fidanzato che scatena la pazzia della protagonista di Breakdown, per esempio, si chiarisce nell’ultimo segmento Locked End). È inoltre un tipo di cinema apprezzabile perché nella sua immediatezza spinge lo spettatore all’attenzione, mettendolo di fronte alle intenzioni degli autori e alle loro scelte estetico/narrative senza filtri: non si sentono costrizioni creative di nessun tipo se non quelle legate al budget o autoimposte. È grazie a questa libertà che si possono gustare appieno i numerosi spunti di riflessione, parentesi quasi stranianti nella fabula, come quello che prende forma nell’immagine della culla al termine del concitato massacro psicologico della coppia di Lovedown (il secondo episodio). Da rilevare è anche la dialettica tra il chiuso degli appartamenti durante il lockdown e gli ambienti aperti, ancora più claustrofobici e pericolosi, immagine in celluloide delle paure (mentali?) che hanno colpito tutti in quei duri mesi di reclusione. Sicuramente molte di queste suggestioni sono già presenti in sceneggiatura (scritta con il sodale Andrea Lionetti), altre diventano materia viva attraverso la messa in scena e la cinefilia del regista; Alberto costruisce infatti inquadrature che richiamano, non pedissequamente ma con scarti d’autore, memorie cinematografiche collettive: in Lock Youth la splendida (e mortale) ballerina che appoggia il piede sul viso dello sventurato avventore è una riproposizione nostrana dell’esotica Santanico Pandemonium di Dal tramonto all’alba (From Dusk till Dawn, Robert Rodriguez, 1996). Insomma una pellicola viva e palpitante, con un cast di attori esperti e di non professionisti, che partecipano all’operazione offrendo spontaneità e voglia di mettersi in gioco. Una nota di merito va agli efficaci titoli di testa e alle musiche originali.

 
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Pubblicato da su giugno 19, 2022 in Recensioni di film

 

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Storia cinematografica della scuola italiana (Lindau, 2022)

Diverse ragioni contribuiscono a rendermi particolarmente felice dell’uscita in libreria del mio volume Storia cinematografica della scuola italiana; fra queste il fatto di essere entrato nel prestigioso catalogo dalla casa editrice Lindau di Torino, che ha segnato la storia della saggistica sul cinema, e di essere riuscito a coniugare la mia antica passione per i film con il mio lavoro di docente. Ho vissuto in presa diretta i cambiamenti della scuola negli ultimi anni e ho studiato le sue trasformazioni del passato, soprattutto con un occhio attento alla loro documentazione cinematografica: fin dai tempi del muto, il cinema ha dato una “lettura” della scuola destinata al grande pubblico, a volte realistica, in altri casi infarcita di luoghi comuni.

Storia cinematografica della scuola italiana si propone così come un viaggio nel tempo, come una galleria di frammenti di un immaginario condiviso da tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono passati per le aule scolastiche; nel corso della mia analisi ho visionato e analizzato decine di pellicole escludendo solo quelle che utilizzavano il contesto scolastico come puro riempitivo. Voglio qui, quasi a titolo di risarcimento, segnalare due film rimasti fuori dal mio lavoro e meritevoli almeno di una citazione: Pronto… c’è una certa Giuliana per te (Massimo Franciosa, 1967), pellicola romantica in cui si racconta la storia d’amore tra due compagni di classe (lui agiato e mammone, lei orfana disinibita) nell’ultimo anno di liceo, e soprattutto l’ispirato Bene ma non benissimo (Francesco Mandelli, 2018), che utilizza la scuola per portare avanti un proprio discorso sul bullismo. Il film è un racconto di formazione che pone al centro della vicenda una giovane siciliana un po’ sovrappeso, alla morte della madre costretta a trasferirsi con il padre a Torino; la ragazza affronterà, sempre col sorriso sulle labbra, le prevaricazioni dei nuovi compagni di classe e farà breccia nel cuore di tutti. L’ambientazione scolastica del film rimane piuttosto di contorno, poco realistica come richiede la dimensione fiabesca della storia; salvo i personaggi attorno a cui ruota la vicenda, gli altri studenti appaiono figurine anonime e quasi omologate nell’assenza di sfumature caratteriali, mentre la professoressa di matematica rimane monoliticamente ancorata alla maschera dell’insegnante di tanti precedenti cinematografici: pronta a redarguire ogni manchevolezza scolastica e incapace di comprendere i problemi esistenziali dei discenti. A questo punto lascio ai lettori tante altre scoperte e li aspetto fra le pagine del libro.

 
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Pubblicato da su marzo 9, 2022 in Altro

 

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Lotus Blues di Sara Boero (Amazon, 2021)

È passato qualche mese dall’uscita di Lotus Blues, l’ultima fatica letteraria di mia sorella Sara; ne scrivo solo ora perché volevo raccontare il romanzo in prospettiva, dopo aver riletto la sua produzione precedente. Spero di essere perdonato se nel parlarne mi sfuggirà qualche minimo di spoiler, è molto difficile fare lo slalom tra i colpi di scena e le rivelazioni che caratterizzano le sue storie, quasi ci trovassimo di fronte a qualche film di M. Night Shyamalan.

I primi tre romanzi sono costruiti attraverso la voce di narratori in prima persona, strumento necessario per dare forma all’urgenza di raccontare dell’allora giovanissima autrice, esordiente a sedici anni; l’aspetto più curioso dei personaggi chiamati a fornire il loro punto di vista è quello di non appartenere propriamente alla realtà letteraria in cui si muovono, ma di mostrare in maniera consapevole la propria natura fantastica.

Se la Cam(illa) de L’estate del non ritorno (Fatatrac, 2001), durante una vacanza in campagna con la migliore amica Meg, raggiunge uno stato di paranoia intuendo attorno a lei tutta una serie di segni inquietanti (“Era come se nulla di tutto ciò che avevo fosse vero, ma fittizio”), nel successivo Quando un albero cade in una foresta deserta (Piemme, 2004) la giovane Irene dichiara subito al lettore di non essere altri che l’amica immaginaria di una tale Marianna; creata dalla fantasia della ragazza quando aveva cinque anni, la povera Irene si trova ora in procinto di dissolversi, sconfitta dagli interessi adolescenziali di Marianna e provata da una fase di crescita che ha lentamente consumato ogni creatività del demiurgo. Perdendo la magnifica villa in stile Versailles e la fedeltà degli elfi servitori che le erano stati messi accanto, Irene continua a esistere esibendo un’invidiabile autoironia e ricostruendo avvenimenti lontani: “Cosa ho fatto nei sei anni passati senza Marianna? Ho letto tutti i milioni di libri dell’enorme biblioteca della villa, ho catturato pavoni, arrostito pavoni, mangiato pavoni… ho studiato piani fallimentari per rubare la chiave della dispensa agli elfi, mi sono difesa dagli scherzi degli elfi, ho picchiato gli elfi…” (p. 26). Per evitare di sciogliersi nel nulla inizia anche a scrivere storie su se stessa, indirizzandole a un lettore immaginario che possa eternarne la non esistenza. Sembra complesso ma il gioco fantastico si sviluppa in maniera chiara ed efficace; credo anzi che la chiave di lettura per comprendere tutti i romanzi scritti da Sara debba partire proprio da questo meccanismo, dall’idea che la fantasia sgomiti per farsi strada in un mondo (adulto) sempre pronto a mortificarla. La stessa cosa succede anche in Piume di drago (Piemme, 2007), che mette in scena una storia narrata, attenzione spoiler, da un gatto domestico che si finge umano; l’animale appartiene a Diego, un ventenne particolarmente propenso alle bugie (snocciolate anche al diario segreto), pur a fin di bene. Il ragazzo vuole infatti assecondare le donchisciottesche follie della nonna malata di Alzheimer, desiderosa di impossessarsi del cuore di carbonio di una stella spenta, indossando un paio d’ali realizzate con le piume dei cigni dei giardini di Kensington!

Il volo appare come metafora dell’allenamento all’immaginazione, una capacità che va esercitata e può trovare uno sfogo sia nelle innocenti bugie di Diego che nell’esercizio della scrittura. Ne Il sogno di Pandora (Piemme, 2008), un’onnivora lettrice diciassettenne sente la necessità di battere al computer le proprie visioni che prendono la forma di un romanzo fantasy, genere tipico per ogni buona storia di formazione; i capitoli dell’opera narrativa si alternano a quelli che riguardano la vita quotidiana di Pandora, con un meccanismo simile a quello de La storia infinita di Michael Ende (Die unendliche Geschichte, 1979). E proprio come nel classico di Ende, la barriera di carta che separa l’universo realistico della cornice da quello fantastico sembra crollare, portando a un’identificazione le protagoniste dei due segmenti, come se la scrittura avesse veramente la capacità medianica di spalancare porte su altri mondi. Questa cosa succede in parte anche nel romanzo La teoria del caos (Salani, 2011), il primo scritto appositamente per un pubblico entrato nella maggior età.

Se Camilla, Irene, Pandora rientrano a pieno titolo nella definizione di adolescenti e Diego, poco più grande, non è ancora entrato nel mondo degli adulti, Miriam de La teoria del caos è una ventiseienne ben inserita nel contesto lavorativo, come medico di famiglia; nell’analizzare l’opera di Sara, i riferimenti all’età dei personaggi appaiono un dato rilevante, perché si scopre la tendenza dell’autrice a raccontare vicende di coetanei, quasi l’intero corpus della sua opera non fosse che una lunga autobiografia narrativa. Qui l’alter ego Miriam, dalla vita regolare e piuttosto sedentaria, cede alle lusinghe del caos immergendosi nella quotidianità del giovane innamorato Evan, una sorta di hikikomori dalla personalità consapevolmente schizofrenica; la storia d’amore tra i due (strutturata su più piani temporali che si intrecciano) viene descritta con un realismo meticoloso che emerge nei dialoghi e nelle situazioni, ma convive con la dimensione fantastica. Nel romanzo, in brevi capitoli isolati dagli altri, prendono infatti forma inquietanti figure di angeli e demoni, creature che condizionano nascostamente le vite degli uomini vivendo in mezzo a loro. Manco a dirlo, nella dormiente società degli adulti, l’unico in grado di accorgersi che esiste qualcosa al di là del velo che circonda il reale, è proprio Evan abituato sin dall’età infantile a esperienze sensoriali di tipo allucinatorio. L’idea di un folle che attraverso l’“anello che non tiene” entra in contatto con altre forme di verità, viene rovesciata nel recente Lotus Blues (Amazon, 2021), pubblicato dieci anni esatti dopo La teoria del caos; Sara nel frattempo è cresciuta, ha vissuto a lungo nel mondo degli adulti e ci racconta una storia ambientata in un cupo universo distopico e fantascientifico, estremizzando il suo viaggio nei luoghi più inquietanti del fantastico, intrapreso già con il germinale L’estate del non ritorno. In Lotus Blues non esiste un unico personaggio disturbato, tutta l’umanità è vittima di un’allucinazione collettiva portata dalla realtà virtuale; microchip innestati nel sistema neuronale hanno infatti permesso a tutti di editare (a pagamento) il mondo che li circonda, camuffando con fantasmi digitali la realtà 1.1. Di questo libro non voglio scrivere altro, per lasciare a chi lo leggerà il gusto della scoperta; voglio però concludere il discorso rilevando come Sara, pur esperta di tecnologie e ottimista sulle infinite possibilità che possono offrire, con questo romanzo voglia sottolineare come la vera distopia del mondo di oggi riguardi l’impossibilità di coltivare l’immaginazione, di lasciare campo libero alla fantasia: “non puoi avere sogni, se tutto quello che desideri si materializza ai tuoi occhi ma niente di quello che vedi è reale” (p. 99).

 
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Pubblicato da su ottobre 31, 2021 in Altro

 

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Un omaggio ai film di Mauro Di Francesco (parte 3 di 3)

Un maggiore approfondimento psicologico e la rinuncia all’eccesso caricaturale (che spesso ha limitato l’emergere delle buone doti interpretative del comico milanese) si trovano in Scusa se è poco (Marco Vicario, 1982, ispirato alle commedie di Aldo De Benedetti), film diviso in due episodi “legati tra di loro soltanto dal fatto di presentare due coppie in crisi. Nel primo, due coniugi divorziati, Renata e Carlo, si ritrovano dopo qualche tempo, desiderosi, l’uno indipendentemente dall’altro, di affittare un appartamento in città, ma le loro intenzioni sono ostacolate dal fatto che i due si amano ancora […] dopo vari tentativi di far ingelosire l’ex marito, Renata decide di rimanergli accanto” (https://it.wikipedia.org/wiki/Scusa_se_%C3%A8_poco, ultima consultazione 26 giugno 2021). Mauro Di Francesco impersona un tale Filippo che, dopo tre anni di accademia drammatica, si trova a fare il factotum di Carlo (Ugo Tognazzi); si dimostra particolarmente pusillanime quando diventa l’amante di Renata (Monica Vitti) ma è terrorizzato dall’idea che lo scopra il suo capo. C’è da dire che il personaggio impersonato da Di Francesco risulta piuttosto consapevole dei suoi limiti, come rivela alla segretaria della donna: “i complessi ce li ho tutti, non riesco a uscire dalla fase infantile”.

I rimandi cinematografici e il rapporto privilegiato con il mondo puerile, sia nelle sue malizie che nelle sue ingenuità, saranno presenti in quasi tutti i film successivi, appaiono come una sorta di canovaccio da cui Mauro Di Francesco è sempre partito per costruire i personaggi; saranno però sempre meno espliciti e significativi. Le ultime due pellicole in cui l’immaginario tipico dell’attore si impone con forza sono Chewingum (Biagio Proietti, 1984) e Puro Cashmere (Biagio Proietti, 1986).

Nel primo, con un cortocircuito (presente anche in altri lavori) tra il nome scritto in sceneggiatura e quello del caratterista, è Mauro, liceale dedito agli scherzi (vero e proprio demiurgo della quotidianità della sua classe) e capace di fingersi un pilota di aerei per conquistare una matura signora; nel secondo è un maestro d’asilo che si ritrova invischiato in una trama gialla, in cui finisce per indossare addirittura gli abiti da investigatore privato alla Humphrey Bogart. Purtroppo l’interpretazione di Di Francesco e la pellicola non convinsero la critica: “Puro Cashmere non offre spunti brillanti. E non basta la buona volontà di un attore che non ha la statura di protagonista e che, d’altronde, non è sostenuto da dialoghi divertenti per sorreggere una storia dai ritmi narrativi lenti e da un intreccio appena imbastito. Per quanto sia commendevole che gli autori rifiutino la facile comicità di battute, allusioni e doppisensi, i materiali per la commedia risultano scarsi, ed è difficile ridere” (r.f., Non sembra proprio di puro cashmere…, in “La Repubblica”, 11 dicembre 1986, sezione spettacoli, p. 22).

Puro Cashmere è l’unica prova “a solo” dell’attore, in genere comprimario in opere corali o spalla del protagonista come in Attila flagello di Dio (Franco Castellano, Pipolo, 1982), dove con la sua “vocina stridula e fessa” si presta allo scherno di Diego Abatantuono, re degli Unni e sovrano incontrastato della pellicola; volendo trovare significati nascosti nei dialoghi (dove forse non esistono), trovo assai indicativa la frase che Di Francesco, come viceré Fetuffo, rivolge ad Attila: “Perché devi essere sempre tu lo re?”, quasi a domandare un riconoscimento che esula dal contenuto della storia.

Pur senza ruoli di primo piano, l’attore rimarrà comunque nell’immaginario nazional popolare specializzandosi in storie ambientate nelle località vacanziere, a partire da Sapore di mare 2 – Un anno dopo (Bruno Cortini, 1983), cui seguiranno Giochi d’estate (Bruno Cortini, 1984), la miniserie Yesterday – Vacanze al mare (Claudio Risi, 1985), il TV movie Ferragosto O.K. (Sergio Martino, 1986), per arrivare ai tardi Abbronzatissimi (Bruno Gaburro, 1991) e Abbronzatissimi 2 – Un anno dopo (Bruno Gaburro, 1993). Rivedendo oggi questi lavori viene da sorridere per l’ingenuità contenutistica e la poca attenzione alla forma; la figura di Mauro Di Francesco li attraversa però con leggerezza, offrendo prove sempre piacevoli anche quando si percepisce una certa stanchezza nella messa in scena e nell’affiatamento del cast.

Col tempo le sue apparizioni si sono diradate (degno di nota è il ruolo di antagonista nel musical Aitanic, diretto da Nino D’Angelo nel 2000); dopo importanti problemi di salute (cfr. intervista a “La vita in diretta” del 4 ottobre 2011), per uscire da ruoli cinematografici ripetitivi e dalla scarsa appetibilità delle offerte televisive, ha preferito tornare a recitare in teatro, oltre che dedicarsi alla scrittura e alla pittura. Sarebbe bello se prima o poi tornasse sugli schermi, magari in un ruolo impegnato che riuscisse a dare risalto a certe sfumature drammatiche rimaste inespresse per la presenza invadente delle gag; dietro a puerili personaggi come Piero di Abbronzatissimi 2, geloso della ex moglie (“non si può avere il fidanzato dopo essere stati sposati”) ma sensibile al fascino femminile (“sono un ometto con le sue esigenze”), o Uberto di Sapore di mare 2 – Un anno dopo, all’apparenza greve ma innocente nelle intenzioni (“non sono per niente frivolo […] saprei essere molto fedele con la ragazza giusta”), si avverte una fragilità preziosa: facendo solo un po’ di attenzione in tutte le maschere indossate da Mauro Di Francesco nella sua lunga carriera è possibile leggere una vena malinconica e percepire con facilità quel “sentimento del contrario” di pirandelliana memoria.

 
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Pubblicato da su agosto 2, 2021 in Recensioni di film

 

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Un omaggio ai film di Mauro Di Francesco (parte 2 di 3)

Il richiamo alla ricchezza e la capacità dei personaggi di indossare panni altrui, emergono anche ne I fichissimi (1981), cult di Carlo Vanzina molto liberamente ispirato al Romeo e Giulietta shakespeariano; qui interpreta Renato che fa il posteggiatore in un garage ma si sente sprecato, tanto che passa il tempo libero a studiare l’inglese (con pessimi risultati) in vista di una fantasticata partenza per gli States. Questo sogno appare privo di fondamenta, frutto di un infantilismo neanche troppo latente, tanto che immagina di far carriera come attore partendo dalla strada e chiedendo l’elemosina a colpi di “buon giorno-buona sera”, corretti nella pronuncia: “De Niro ha cominciato così”. Il suo ruolo all’interno della pellicola è quello di aiutante positivo del protagonista Romeo (Jerry Calà), un collega innamorato della sorella del gelosissimo “terrunciello” Felice (Diego Abatantuono), a capo di una gang; per aiutare Felice a nascondere la sua tresca con la ragazza e tranquillizzare il fratello che desidera un matrimonio che la sistemi, si finge il fidanzato di lei e usa le sue scarse capacità mimetiche inventando di essere un tal John, figlio di un importatore di Whiskey dell’Illinois e, mostrandosi in Ferrari (presa in prestito dal luogo di lavoro) inizia un dialogo con Felice fatto di parole italiane inglesizzate. La stessa cosa viene fatta nel dialogo quotidiano con gli amici, tanto che quando va a parlare con Romeo, finito in prigione per una tentata rapina, gli dice che il padre è “very very incazzated”.

Questa storpiatura dell’inglese come lingua della comunicazione internazionale e come lingua necessaria per inseguire un sogno hollywoodiano ritorna anche in altre pellicole, è uno dei cavalli di battaglia dell’attore che lo utilizza molto spesso, sia quando ricopre ruoli da straniero (Sballato, gasato, completamente fuso) sia quando vuole apparire uomo di mondo (Abbronzatissimi); a titolo di esempio ne Il ras del quartiere (1983) parla uno slang in cui i termini anglofoni sono inutili ripetizioni chiarificatrici (“gli abbiamo riportato la ragazza nella casa, nella home”) o lessico isolato nelle frasi (“se loro sono five e tu one, è più facile che i soldi me li ridai tu”). Inoltre la manipolazione del linguaggio attraverso l’invenzione delle parole è tipico della dimensione infantile che fa da filo conduttore a tutte le sue interpretazioni (l’altezza di Di Francesco come segno distintivo del carattere immaturo dei suoi personaggi), così come la disponibilità allo scherzo anche pesante o all’azione più sconsiderata.

Sempre ne I fichissimi accetta di accompagnare Felice nel rapimento dell’innamorata, che sta per sposarsi con un altro pretendente: la sequenza si svolge quasi ricalcando l’iconica conclusione de Il laureato (The Graduate, Mike Nichols, 1967) con Dustin Hoffman, quasi a esplicitare la “cinematograficità” di quanto sta accadendo.

Qualcosa di simile accade ne Il ras del quartiere (Carlo Vanzina, 1983), una sorta di italianizzazione comica de I guerrieri della notte (The Warriors, Walter Hill, 1979), per l’atmosfera metropolitana che vuole creare, e delle pellicole noir americane, con annessa voce fuori campo del protagonista-detective; il capobanda del titolo è un certo Domingo (Diego Abatantuono) che, dietro la promessa di una ricompensa, cerca di ritrovare la figlia scomparsa di un ragioniere. Nel corso della vicenda si ritrova in un pittoresco bar dove scoppia una rissa che coinvolge anche il batterista Jena, interpretato da Mauro Di Francesco. L’uomo, futuro aiutante di Domingo, combatte imitando mosse prese di peso da qualche sgangherata pellicola di kung-fu ma è caratterizzato soprattutto per una benda sull’occhio, diventando una copia caricaturale dello Jena “Snake” Plissken (Kurt Russell) del capolavoro di genere 1997: Fuga da New York (Escape from New York, John Carpenter, 1981). La deformazione che porta allo Jena originale tocca anche le caratteristiche psicologiche del personaggio, non più un disincantato antieroe che lotta per la propria vita ma un petulante (come possono esserlo i bambini) spiantato attaccato al denaro; il suo “attaccamento” a Domingo nasce dalla volontà di essere risarcito per la batteria che l’uomo gli ha accidentalmente rotto: “un batterista senza batteria è come una batteria senza batterista”. Lo Jena de Il ras del quartiere pronuncia parole al contrario pensando che sia un “modo tosto per esprimersi”, usa il termine “grano” per dire “denaro” e “gallina” per “donna”; vuole apparire un duro come quello dei telefilm (quando domanda retoricamente se “nei telefilm americani chiudono la macchina?”, questa viene prontamente rubata) e vive facendo continui riferimenti a pellicole del passato, da Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, John Schlesinger, 1969) a Rocky (id., a John G. Avildsen, 1976).

Questo inserire continui richiami ad altre pellicole (l’inseguimento nella metropolitana viene accompagnato da una musica extradiegetica elettronica in stile 1997: Fuga da New York), che diventano modello da imitare nella finzione scenica, va a braccetto con l’attorialità intrinseca nelle maschere interpretate da Mauro Di Francesco; se ne Il paramedico (Sergio Nasca, 1982) è un agente della DIGOS che si finge carcerato per estorcere una confessione al presunto terrorista Enrico Montesano (“Se denunci tutti…  tac, scatta la libidine; ti portano, le donne in cella”) in altre occasioni quello di attore è proprio il mestiere attribuito ai personaggi. In Sballato, gasato, completamente fuso (Steno, 1982) è Pippo, artista fallito che si mantiene facendo il cameriere e usa le proprie doti interpretative (“Sono meglio di Brando”) per concupire la bella Edwige Fenech; invero il metodo che utilizza non appare molto appropriato, anzi piuttosto puerile e passibile di denuncia: si finge un famoso regista americano e propone alla ragazza un provino poi, per spaventarla e farla cadere tra le sue braccia, la insegue per tutta la casa fingendosi pazzo! La cosa interessante della sequenza è la costruzione di una blanda tensione attraverso la rievocazione di pellicole del terrore, utilizzando la musica di Profondo rosso (Dario Argento, 1975), spaccando una porta con un’ascia alla Shining (The Shining, Stanley Kubrick, 1980) o semplicemente appendendo alla parete del bagno un manifesto de L’aldilà (Lucio Fulci, 1981).

[CONTINUA IL 2 AGOSTO]

 
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Pubblicato da su luglio 16, 2021 in Recensioni di film

 

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Un omaggio ai film di Mauro Di Francesco (parte 1 di 3)

Nel corso degli anni mi è capitato spesso di riguardare con piacere qualche pellicola interpretata da Mauro Di Francesco (Milano, 1951), un attore che ha vissuto il successo e che oggi si è volontariamente allontanato dalle scene. Tanti suoi colleghi formatisi come lui nel cabaret (negli anni Settanta ha fatto parte del Gruppo Repellente assieme a Diego Abatantuono e Massimo Boldi) sono passati dai ruoli comici ad altri più impegnati, riscuotendo anche vasti consensi critici; Mauro Di Francesco ha interpretato tante commedie che una trentina d’anni fa hanno segnato i gusti (non sempre raffinati) dello spettatore medio ma che sono destinate a rimanere nella memoria di pochi nostalgici. Personalmente trovo che Di Francesco meriti un rilievo maggiore e che le sue interpretazioni offrano diversi spunti di riflessione. Intanto è curioso constatare come spesso indossi i panni di personaggi che hanno il suo nome, Mauro o Maurino per sottolinearne bonariamente l’altezza (circa un metro e sessantotto, dati Internet), quasi a mettere se stesso di fronte alla cinepresa; inoltre ritornano certi topoi particolarmente significativi, come il fatto che questi personaggi siano bloccati in una dimensione infantile-giocosa tipica dei bambini che non permette loro di diventare veramente adulti. È un’interpretazione azzardata, non conoscendolo di persona, ma sembra quasi che, film dopo film, venga proposto un ritratto psicologico dell’uomo Mauro Di Francesco; leggendo qualcosa delle varie biografie online, si scopre infatti come l’attore, “figlio di una sarta e di un direttore di palcoscenico teatrale”, sia entrato nel mondo dello spettacolo da bambino, con le pubblicità di Carosello. Gli anni della crescita vanno in parallelo con il lavoro e le numerose apparizioni negli sceneggiati televisivi, tra cui il secondo episodio de I promessi sposi (Sandro Bolchi) e La freccia nera (Anton Giulio Majano) nel 1968, a soli diciassette anni. È come se la dimensione ludica della recitazione avesse sostituito quella della quotidianità puerile: forse non è un caso che l’immaturità di molti dei personaggi cui ha dato vita sia caratterizzata da comportamenti imitativi di modelli cinematografici e numerose citazioni filmiche. Cercherò di chiarire alcuni di questi aspetti esaminando brevemente la sua filmografia.

Il titolo che segna l’esordio negli anni Ottanta, decennio d’oro nella carriera dell’attore, è Teste di quoio (Giorgio Capitani, 1981), vicenda demenziale in cui quattro aspiranti terroristi di un fantomatico Paese, vogliono assaltare la loro ambasciata a Roma senza sapere che si è trasferita; accerchiati dalle forze dell’ordine si trovano così a tenere in ostaggio i variopinti condomini del palazzo. Il film trasforma in farsa i modelli americani incentrati sul rapporto tra criminali-ostaggi-forze dell’ordine e affianca Mauro Di Francesco, capo della polizia, al granitico comandante dell’unità di crisi interpretato da Philippe Leroy; il comico non viene praticamente mai inquadrato lontano dall’attore francese, ne diventa come il contraltare comico, sfoggiando un fisico antitetico a quello dei “classici” duri cinematografici ma tenendo perennemente un sigaro tra le labbra. Pur limitato nel maggior spazio offerto al protagonista Francesco Salvi, Di Francesco trova una propria autonomia nel successivo Miracoloni (Francesco Massaro, 1981), ambizioso e sconnesso progetto che “riprende in chiave comica situazioni e personaggi biblici e della storia cristiana […] Nella trama convivono sia le figure storiche originali che dei loro “adattamenti” moderni. In particolare, la figura di Pietro è incarnata in due distinti personaggi: il vero e proprio santo apostolo a guardia del paradiso ed il mistico industriale Pietro Rio Maruzzella, il cui cognome è la fusione di due marche di pesce in scatola Rio Mare e Maruzzella” (https://it.wikipedia.org/wiki/Miracoloni, ultima consultazione 22 giugno 2021). L’attore interpreta Pietro, ricco imprenditore pronto a dilapidare le proprie ricchezze (muovendosi dagli stregoni del Brasile agli sciamani indiani) pur di trovare un nuovo Messia; quando lo riconosce nel giovane Giosuè, giramondo con poteri miracolosi, ne diventa una sorta di manager, organizzando misticheggianti serate in discoteca per una poco chiara tournée evangelica. Nel personaggio di Pietro va sottolineato come Mauro Di Francesco affini alcune caratteristiche della maschera del viveur danaroso, qui circondato da “belle gallinone” scosciate mentre sorseggia uno “champagnino”, maschera che indosserà in molte altre pellicole, magari costruendo addosso ai personaggi uno status a cui non appartengono.

Il caso più significativo è quello del film a episodi Abbronzatissimi (Bruno Gaburro, 1991), accanto a Teo Teocoli; i due sono una coppia di amici (Maurino e Matteo), spiantati operai milanesi, che partono per le vacanze in cerca di danarose ereditiere da accalappiare al Grand Hotel di Rimini. Per avvicinarle fingono di appartenere all’alta società affittando smoking, sfoggiando Ray-Ban, dotandosi di cellulari finti (all’epoca erano ancora un lusso per pochi) e camminando da ricchi, con quel “passo lungo” che “non ha paura di consumare le suole”.

[CONTINUA IL 16 LUGLIO]

 
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Pubblicato da su luglio 1, 2021 in Recensioni di film

 

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La poesia, il gesto, il suono. Invito alla riscoperta di Jacques Tati (StreetLib, 2021)

La storia del Cinema è stata sempre segnata da autori non riferibili a un preciso genere o non incasellabili in particolari correnti ideologiche, capaci però di creare attraverso la pellicola universi in celluloide vivi e credibili.

Uno di questi autori è sicuramente Jacques Tati (1907-1982), regista francese formatosi come mimo e arrivato a realizzare film praticamente da autodidatta, ma portando avanti con coerenza una personalissima idea di cinema e investendo in prima persona le ingenti risorse economiche che occorrevano per realizzarla.

I suoi lavori somigliano a rompicapi visivi, in cui le numerose gag sono come frantumate nel metraggio e acquistano senso solo cogliendo i collegamenti che le uniscono; inoltre le immagini sono piene di dettagli, spesso così decentrati rispetto al nucleo dell’azione che ad ogni visione, lasciando lo sguardo libero di vagare per lo schermo, sembra di seguire un film diverso. Non sono certo pellicole per tutti i gusti, ma parlano all’intelligenza dello spettatore e alla sua attenzione critica.

Nel corso degli anni mi sono occupato di Jacques Tati in diverse occasioni e mi è venuta voglia di raccontare quello che ho apprezzato in un libro, La poesia, il gesto, il suono. Invito alla riscoperta di Jacques Tati (StreetLib, 2021); il testo è stato strutturato come la “classica” monografia su un regista, con una biografia e l’analisi cronologica dei film, cercando di avvicinare il raffinato gioco spettacolare dell’autore attraverso la massima intelligibilità interpretativa.

Tati merita ogni scoperta e riscoperta; il suo immaginario poetico, nella sua artificiosità artigianale, riesce ancora a comunicare, magari invitandoci a non accettare passivamente il conformismo visivo imperante, spesso spacciato attraverso stupefacenti manifestazioni tecnologiche.

 
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Pubblicato da su giugno 12, 2021 in Altro

 

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