Come spettatore cinematografico appartengo alla categoria degli onnivori; pur prediligendo alcuni temi e generi, come il western e l’horror (nel passato mi sono interessato in particolare al Mockumentary e al Found Footage stile The Blair Witch Project), la passione per i film mi porta a guardare un po’ di tutto. Ultimamente, e dico purtroppo, sballottato tra le numerose piattaforme streaming, percepisco una certa stanchezza nell’offerta; mi trovo a passare (sprecare) sempre più tempo cercando qualcosa di valido da guardare e, quando finalmente inizio la visione, non è infrequente la delusione di fronte a pellicole dalla scarsa sapidità. Gran parte dei prodotti odierni, pur tecnicamente ineccepibili, appaiono come anestetizzati, incapaci di creare quadri in movimento che possano rimanere impressi nella memoria (pensiamo alla debolezza iconografica degli ultimi lavori di due mostri sacri come Ridley Scott e Martin Scorsese). Alla fine torno sempre a frequentare i vecchi film, magari rinfrescando il ricordo di una vecchia e sgranata VHS con l’accecante alta definizione di qualche restauro in 4K; tanto per citarne alcuni, su Prime Video sono brevemente transitati Zombi di George Romero e Apocalypse Now Final Cut di Francis Ford Coppola, mentre nelle grandi sale hanno trovato posto Audition di Takashi Miike (non è male neanche il romanzo di Ryū Murakami da cui è tratto, recentemente tradotto da Atmosphere Libri) e The Warriors di Walter Hill. Oltre a viaggiare nel glorioso passato del Cinema, ogni tanto è bello anche scoprire lavori che escono dagli schemi, rigidamente fuori dal circuito mainstream; il caro amico Alberto Bogo, di cui ho già parlato in altre occasioni (per i precedenti Extreme Jukebox, Terror Take Away, Terror Zone) e che continua titanicamente a scrivere-dirigere film indipendenti come fossero dichiarazioni d’amore per la Settima Arte, mi ha regalato un’interessante ora e mezza facendomi vedere in anteprima la sua ultima fatica. Sto parlando di Terence Holler, cosa mia (trailer all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=AgWGQMxzeNY), un documentario sulla vita del cantante (al secolo Mario Tarantola, Brooklyn 15 aprile 1968) degli Eldrich dopo la sua uscita dal gruppo. Per chi, come me, non ha confidenza con la musica metal, i primi minuti dopo gli efficaci titoli di testa possono apparire stranianti; si entra subito nel vivo della persona, dando per scontato e come definitivamente concluso il trentennale capitolo della band livornese che ha contribuito a fondare nel 1991. L’impressione è quella di assistere a un’operazione che si impegna a togliere la maschera al personaggio pubblico per concentrarsi sull’uomo, un cinquantacinquenne un po’ appesantito dagli anni ma dall’atteggiamento ancora provocatorio e irriverente, soprattutto per il linguaggio particolarmente sboccato; questo smascheramento è organizzato in “track” (e ghost track) come fosse un disco: la musica fa da collante per i contenuti veicolati ed è un importante complemento delle immagini (leggo nei crediti che oltre ai successi degli Eldritch, sono presenti brani di band quali Frozen Crown, Deathless Legacy, Theatres des Vampires, Be The Wolf e Trick Or Treat), caratterizzando in maniera originale ogni traccia. L’estrema varietà dei capitoli rende così Terence Holler, cosa mia un oggetto strano, un prisma che riflette con diversi colori il proprio soggetto. Per spiegare meglio cosa intendo, a costo di rischiare qualche spoiler, può essere utile scorrere la tracklist, ma già la prima sezione è leggibile come una dichiarazione d’intenti, perché mostra con orgoglio lo scarto che la separa dagli altri documentari biografici. Le interviste a ex fidanzate e amici del cantante (tra cui Cristina Scabbia e Andrea Ferro dei Lacuna Coil) all’apparenza raccontano la solita vicenda di una persona che ha vissuto un rapporto conflittuale con l’amore, incapace di tenere in piedi le relazioni sentimentali ma contemporaneamente pieno di passione; lo stesso racconto emerge dall’intervento di Sara Boero, esperta di comunicazione e youtuber, nonché mia sorella (che sorpresa trovarla nel film!), che analizza con puntualità alcuni testi di Holler. Dietro questi contenuti si percepisce chiaramente la volontà del regista di costruire qualcosa di stonato, tanto che nel montaggio sceglie di alternare le opinioni degli intervistati con la viva voce del soggetto; è la conversazione con lo stesso Holler che sembra negare quanto viene detto, in particolare per il linguaggio sboccato che utilizza e per le insistite uscite sessiste, in questa sede difficilmente ripetibili. Nel resto del metraggio Alberto Bogo alza il tiro e spinge il protagonista in situazioni quasi limite, come quando da ragazzi si “metteva in mezzo” qualcuno per farsi due risate di gruppo; la cosa originale è che lo fa a uno dei sui idoli musicali, forse con la volontà di grattare la scorza di un rocker in là con gli anni, disponibile al gioco ma come bloccato nel proprio personaggio, quello di chi si gode la vita e sostiene (in un triviale toscanaccio) “m’importa una sega” anche di fare azioni sul confine della legalità. È così che Alberto, mostrandosi direttamente, mette Terence Holler prima tra le braccia di una “Love Guru” (Track 1) per un massaggio (piuttosto spinto) che dovrebbe insegnarli ad annullare se stesso, poi in una sorta di carnaio umano (stile Twister ma più attorcigliato) da cui deve uscire come fosse un nascituro durante il parto (Track 5: In another life i would still be a singer), per ottenere un nuovo imprinting che gli permetta di avere una vita nuova e costruita su “presupposti diversi da quelli in cui ci siamo identificati” (sic!). In quest’opera di correzione verso un futuro migliore, quasi fosse una terapia psicanalitica per risanare ferite psicologiche non pienamente individuate, Bogo allestisce un percorso a tappe che viaggia anche attraverso la dimensione del passato e del presente; il tempo che fu viene rappresentato con un viaggio in America della troupe (Track 3: Your footsteps, our origin), che pedina il cantante nei luoghi in cui ha vissuto la propria giovinezza, il presente con un servizio sul ristorante di Holler (“La Porkeria” che serve solo carne, in barba al politicamente corretto in cucina; Track 2: Hunger, deities and sweat) e la ripresa di una serata a casa sua tra giochi di società, bevute e iperbolici racconti di prodezze giovanili (Track 4: A (one) night (stand) with Terence Holler).
Il film termina con la Track 666: If I were like you, I would not be me, che segna la ripartenza di Holler, con un concerto, la pubblicità della nuova band e un party nella sua villa; in questo momento si ha finalmente un quadro completo di cosa abbiamo visto. Per dare un’immagine a tutto tondo del musicista ed evitare i soliti ritratti agiografici o i facili maledettismi, Alberto Bogo ha scelto la strada più difficile; ha posto al centro il corpo di Mario Tarantola e del suo alter ego artistico Terence Holler (ma non si sa, come indicano i titoli di testa, chi dei due reciti la parte dell’altro), manipolando il mondo intorno a lui (o inventandolo, come fanno i bravi registi) e cogliendo brevi finestre di verità… in qualche modo la pellicola chiude un cerchio: parte con un iconico cantante metal in piena crisi di mezza età e lo ripropone, a fine riprese, come un cantante sempre di mezza età ma pronto a reinventarsi.