È passato qualche mese dall’uscita di Lotus Blues, l’ultima fatica letteraria di mia sorella Sara; ne scrivo solo ora perché volevo raccontare il romanzo in prospettiva, dopo aver riletto la sua produzione precedente. Spero di essere perdonato se nel parlarne mi sfuggirà qualche minimo di spoiler, è molto difficile fare lo slalom tra i colpi di scena e le rivelazioni che caratterizzano le sue storie, quasi ci trovassimo di fronte a qualche film di M. Night Shyamalan.
I primi tre romanzi sono costruiti attraverso la voce di narratori in prima persona, strumento necessario per dare forma all’urgenza di raccontare dell’allora giovanissima autrice, esordiente a sedici anni; l’aspetto più curioso dei personaggi chiamati a fornire il loro punto di vista è quello di non appartenere propriamente alla realtà letteraria in cui si muovono, ma di mostrare in maniera consapevole la propria natura fantastica.

Se la Cam(illa) de L’estate del non ritorno (Fatatrac, 2001), durante una vacanza in campagna con la migliore amica Meg, raggiunge uno stato di paranoia intuendo attorno a lei tutta una serie di segni inquietanti (“Era come se nulla di tutto ciò che avevo fosse vero, ma fittizio”), nel successivo Quando un albero cade in una foresta deserta (Piemme, 2004) la giovane Irene dichiara subito al lettore di non essere altri che l’amica immaginaria di una tale Marianna; creata dalla fantasia della ragazza quando aveva cinque anni, la povera Irene si trova ora in procinto di dissolversi, sconfitta dagli interessi adolescenziali di Marianna e provata da una fase di crescita che ha lentamente consumato ogni creatività del demiurgo. Perdendo la magnifica villa in stile Versailles e la fedeltà degli elfi servitori che le erano stati messi accanto, Irene continua a esistere esibendo un’invidiabile autoironia e ricostruendo avvenimenti lontani: “Cosa ho fatto nei sei anni passati senza Marianna? Ho letto tutti i milioni di libri dell’enorme biblioteca della villa, ho catturato pavoni, arrostito pavoni, mangiato pavoni… ho studiato piani fallimentari per rubare la chiave della dispensa agli elfi, mi sono difesa dagli scherzi degli elfi, ho picchiato gli elfi…” (p. 26). Per evitare di sciogliersi nel nulla inizia anche a scrivere storie su se stessa, indirizzandole a un lettore immaginario che possa eternarne la non esistenza. Sembra complesso ma il gioco fantastico si sviluppa in maniera chiara ed efficace; credo anzi che la chiave di lettura per comprendere tutti i romanzi scritti da Sara debba partire proprio da questo meccanismo, dall’idea che la fantasia sgomiti per farsi strada in un mondo (adulto) sempre pronto a mortificarla. La stessa cosa succede anche in Piume di drago (Piemme, 2007), che mette in scena una storia narrata, attenzione spoiler, da un gatto domestico che si finge umano; l’animale appartiene a Diego, un ventenne particolarmente propenso alle bugie (snocciolate anche al diario segreto), pur a fin di bene. Il ragazzo vuole infatti assecondare le donchisciottesche follie della nonna malata di Alzheimer, desiderosa di impossessarsi del cuore di carbonio di una stella spenta, indossando un paio d’ali realizzate con le piume dei cigni dei giardini di Kensington!

Il volo appare come metafora dell’allenamento all’immaginazione, una capacità che va esercitata e può trovare uno sfogo sia nelle innocenti bugie di Diego che nell’esercizio della scrittura. Ne Il sogno di Pandora (Piemme, 2008), un’onnivora lettrice diciassettenne sente la necessità di battere al computer le proprie visioni che prendono la forma di un romanzo fantasy, genere tipico per ogni buona storia di formazione; i capitoli dell’opera narrativa si alternano a quelli che riguardano la vita quotidiana di Pandora, con un meccanismo simile a quello de La storia infinita di Michael Ende (Die unendliche Geschichte, 1979). E proprio come nel classico di Ende, la barriera di carta che separa l’universo realistico della cornice da quello fantastico sembra crollare, portando a un’identificazione le protagoniste dei due segmenti, come se la scrittura avesse veramente la capacità medianica di spalancare porte su altri mondi. Questa cosa succede in parte anche nel romanzo La teoria del caos (Salani, 2011), il primo scritto appositamente per un pubblico entrato nella maggior età.

Se Camilla, Irene, Pandora rientrano a pieno titolo nella definizione di adolescenti e Diego, poco più grande, non è ancora entrato nel mondo degli adulti, Miriam de La teoria del caos è una ventiseienne ben inserita nel contesto lavorativo, come medico di famiglia; nell’analizzare l’opera di Sara, i riferimenti all’età dei personaggi appaiono un dato rilevante, perché si scopre la tendenza dell’autrice a raccontare vicende di coetanei, quasi l’intero corpus della sua opera non fosse che una lunga autobiografia narrativa. Qui l’alter ego Miriam, dalla vita regolare e piuttosto sedentaria, cede alle lusinghe del caos immergendosi nella quotidianità del giovane innamorato Evan, una sorta di hikikomori dalla personalità consapevolmente schizofrenica; la storia d’amore tra i due (strutturata su più piani temporali che si intrecciano) viene descritta con un realismo meticoloso che emerge nei dialoghi e nelle situazioni, ma convive con la dimensione fantastica. Nel romanzo, in brevi capitoli isolati dagli altri, prendono infatti forma inquietanti figure di angeli e demoni, creature che condizionano nascostamente le vite degli uomini vivendo in mezzo a loro. Manco a dirlo, nella dormiente società degli adulti, l’unico in grado di accorgersi che esiste qualcosa al di là del velo che circonda il reale, è proprio Evan abituato sin dall’età infantile a esperienze sensoriali di tipo allucinatorio. L’idea di un folle che attraverso l’“anello che non tiene” entra in contatto con altre forme di verità, viene rovesciata nel recente Lotus Blues (Amazon, 2021), pubblicato dieci anni esatti dopo La teoria del caos; Sara nel frattempo è cresciuta, ha vissuto a lungo nel mondo degli adulti e ci racconta una storia ambientata in un cupo universo distopico e fantascientifico, estremizzando il suo viaggio nei luoghi più inquietanti del fantastico, intrapreso già con il germinale L’estate del non ritorno. In Lotus Blues non esiste un unico personaggio disturbato, tutta l’umanità è vittima di un’allucinazione collettiva portata dalla realtà virtuale; microchip innestati nel sistema neuronale hanno infatti permesso a tutti di editare (a pagamento) il mondo che li circonda, camuffando con fantasmi digitali la realtà 1.1. Di questo libro non voglio scrivere altro, per lasciare a chi lo leggerà il gusto della scoperta; voglio però concludere il discorso rilevando come Sara, pur esperta di tecnologie e ottimista sulle infinite possibilità che possono offrire, con questo romanzo voglia sottolineare come la vera distopia del mondo di oggi riguardi l’impossibilità di coltivare l’immaginazione, di lasciare campo libero alla fantasia: “non puoi avere sogni, se tutto quello che desideri si materializza ai tuoi occhi ma niente di quello che vedi è reale” (p. 99).
