Spesso l’immaginario popolare, costituito da una sterminata mole di film, telefilm, albi a fumetti, canzoni, è la materia stessa con cui si creano nuovi prodotti; tra i fumettisti viene subito in mente l’opera di Zerocalcare che ha fatto del citazionismo la propria essenza e dei prodotti mediali di consumo uno strumento per conoscere la realtà. In molti hanno quindi sentito la necessità, come naturale propaggine del proprio lavoro cartaceo, di sperimentare altre forme di comunicazione; basti pensare a Davide Toffolo, che ha sempre sposato il disegno con la musica, o a Gipi, che ha adattato il proprio stile essenziale e nervoso dirigendo alcune pellicole. Parlando di artisti stranieri che si sono cimentati con la trasposizione dei propri comic su grande schermo, mi sembra significativo il caso di Daniel Clowes.
Clowes comincia a pubblicare (disegnando e scrivendo le proprie storie) negli anni Ottanta per la casa editrice Fantagraphics di Seattle, punto di riferimento del fumetto indipendente americano e da cui passano firme come Peter Bagge (di cui consiglio di recuperare l’interessante Hate!, edito in Italia dalla Magic Press); alla comicità demenziale degli inizi vengono ad accostarsi diverse sperimentazioni narrative, con una predilezione per il genere drammatico connotato da un forte autobiografismo. Dei suoi lavori, dal 1989 stampati sulla rivista Eightball (uno spazio personale in cui ha piena libertà creativa), rimangono particolarmente impressi la capacità di osservare con occhio distaccato la complessità del mondo e quella di saper utilizzare le “chincaglierie pop per mostrare le macerie di un mondo al collasso”: si è come sommersi da una realtà che, pur stilizzata e raccontata con fredda lucidità (nella sua povertà di valori), finisce per coinvolgere emotivamente.