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Buzzati al Cinema (prima parte)

31 Mag

È sempre molto interessante ripercorrere le influenze reciproche che avvicinano il Cinema alla Letteratura; tra i volumi distribuiti lo scorso anno per commemorare il cinquantesimo anniversario dalla morte dello scrittore Dino Buzzati (1906-1972), si può trovare anche il saggio di Giancarlo Zappoli e Claudia Bersani Buzzati e il cinema (Milano, BookTime, 2022), che ripercorre le trasposizioni filmiche dei suoi romanzi. La lettura del testo mi ha fatto venire voglia di ripensare all’argomento, di cui mi ero già interessato alcuni anni fa; volendo approfondire il rapporto che lo scrittore bellunese ha instaurato con le immagini in movimento ci si scontra però con diversi ostacoli. Un primo problema è rilevabile nelle molte occasioni che lo vedono coinvolto in prima persona, sia come attore (Vacanze nel deserto, Valerio e Giancarlo Romani Adami, 1971) che come sceneggiatore; come esempi si può accennare alla sua stesura del commento al documentario Il postino di montagna (Adolfo Baruffi, 1951) e all’esperienza, vissuta accanto a Federico Fellini, nel “non-film” Il viaggio di G. Mastorna, progetto che, stesura dopo stesura, ha modificato la propria struttura fino a trasfigurare nel bellissimo fumetto illustrato da Milo Manara. Molto difficile è anche parlare delle pellicole che si ispirano direttamente alla sua narrativa; esaminarle significa comprendere lo sforzo che ha richiesto la loro realizzazione, la fatica di dover evocare, come sottolinea Piero Zanotto in un saggio di alcuni anni fa, attraverso la concretezza di immagini in sé definite, atmosfere che “nell’originaria pagina letteraria si rivolgono per la loro cifra metafisica alla complicità immaginativa del lettore”. Inoltre, per realizzare un lavoro completo, sarebbe necessario recuperare i cortometraggi prodotti all’estero e i tanti adattamenti dei racconti per la televisione; navigando nel Web, tra i primi si trova notizia del francese La ballade d’un condamné (Anne-Laure Brénéol, 1993) da Quiz all’ergastolo, tra i secondi Un cas intéressant (Pierre Badel, 1963) da Un caso clinico (soggetto anche del tedesco Das Haus mit den sieben Stockwerken di Frank Guthke, 1968) e Le chien qui a vu Dieu (Paul Paviot, 1970) da Il cane che ha visto Dio. Sul piccolo schermo in Italia apparve invece lo sceneggiato La giacca stregata (Massimo Franciosa con Alberto Lionello), trasmesso il 26 settembre 1969 e tratto dall’omonimo testo presente nella raccolta La boutique del mistero (1968).

Tornando a parlare di cinema, la prima opera di Buzzati tradotta in pellicola è anche quella di più recente ispirazione e forse la più discussa; il romanzo Un amore fu infatti presentato a Milano nell’aprile 1963, cioè appena due anni prima della pellicola omonima, e creò intorno a sé un grande interesse. Le cronache del periodo riportano il clamore di questo caso editoriale, ovvero la virata dell’autore (apprezzato nelle atmosfere magico-realistiche) in direzione di un verismo psicologico, carico di dolente sincerità; Buzzati mette a nudo la propria anima in maniera violenta, svela la passione (e la sessualità) che si cela dietro la maschera delle ipocrisie e delle convenzioni sociali. Quando il 4 febbraio 1965 viene dato il primo ciak al film di Gianni Vernuccio è grande l’attenzione dei giornali; Buzzati stesso si mette in gioco, è presente sul set, offre la sua persona al pubblico come ha offerto il suo mondo privato alle pagine di Un amore. Ma dall’esperienza ottiene solo delusioni; Vernuccio, uscito dal Centro sperimentale di cinematografia e documentarista presso il Luce, già regista di Uomini senza domani (opera prima presentata a Venezia nel 1947) e di altre pellicole minori, ricrea l’atmosfera triste e torbida del romanzo (una Milano umida, fatta di fumo, che sembra appiccicarsi addosso alle persone) ma non riesce a far decollare mai il film.

In un contesto di cinema commerciale come quello in cui nasce tutta l’operazione, il regista ha il merito di far conoscere al grande pubblico il contenuto del romanzo ma viene meno nel tratteggiarne i caratteri; per evitare la censura rinuncia anche ad alcune situazioni scabrose e il suo lavoro finisce per essere poco apprezzato dalla critica: “Il meno che si possa dire è che ne risulta una situazione piuttosto statica, già tutta scontata ed esaurita dopo il primo quarto d’ora […] A rendere tutto più schematico e superficiale contribuisce non poco l’inadeguatezza dell’ambientazione, risoluta nei più consunti clichés della Milano – bene” (Sandro Zambetti, “Cineforum”, n. 57, set. 1966). Il mondo borghese contemporaneo è il soggetto anche di Il fischio al naso (1967), fortemente voluto da Ugo Tognazzi che scrive (dopo aver scartato il primo trattamento dello scrittore) e dirige. Grazie all’aiuto di Rafael Azcona, già collaboratore di Marco Ferreri (amico di Tognazzi e comparsa nel suo film), l’attore carica le situazioni di grottesco, ridicolizzando attraverso l’esagerazione satirica la discesa nel mondo dell’assistenza medica di Giuseppe Inzerna, industriale. Ricoverato per un lieve disturbo respiratorio Tognazzi sale (nel racconto Sette piani procede verso il basso) i piani di un ospedale diretto al reparto dei malati gravi; lo scontato esito fatale rende la struttura ospedaliera un carnefice privo di motivazioni, un luogo dove il destino del malato è già segnato.

Ne Il fischio al naso il viaggio verso la morte dell’uomo si presenta come complotto organizzato, o almeno auspicato, dai suoi familiari, consumatori senza freno, scialacquatori, individui degenerati negli affetti e insensibili all’umanità; una razza cui appartiene anche il protagonista che verrà “gettato via” proprio come i lenzuoli ed i vestiti di carta prodotti nella sua fabbrica. Al film manca il dramma esistenziale, la forza allegorica del modello; qui la malattia è solo l’incidente che condanna l’uomo moderno ad essere riciclato anzitempo, ad abbandonare il proprio posto nella società del benessere.

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Pubblicato da su Maggio 31, 2023 in Altro

 

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