Dopo Sette piani, l’altro racconto che trova un adattamento cinematografico è Eppure battono alla porta, del 1937. Il testo di partenza aveva come elemento centrale la sensazione di pericolo (un fiume si sta ingrossando) incombente sulla quotidianità di una famiglia benestante, che cerca di continuare a vivere come nulla fosse; dell’originale la pellicola Contronatura (Antonio Margheriti, 1969) utilizza solo l’ambientazione oppressiva della villa e l’atmosfera misteriosa, relegandole alla conclusione. Il film ha invece la forma di ghost story gotica, efficace nel costruire un terrore psicologico ma debole per l’eccessivo numero di flashback e per una trama poco lineare.
Più fedele risulta Il deserto dei Tartari (Valerio Zurlini, 1976); il romanzo esce nel 1940, alla vigilia della guerra, e tra le sue pagine si fiutano le tracce dei sei anni passati al “Corriere della Sera”, che lasciarono all’autore la sensazione spiacevole del monotono ripetersi di gesti quotidiani. Alla parabola esistenziale dell’ufficiale Giovanni Drogo è possibile appassionarsi proprio perché metafora di quel lento fluire di avvenimenti, speranze e sogni (atrofizzati dal passare del tempo), che è la vita della maggior parte degli uomini. Drogo attende in una fortezza ai margini dell’impero l’arrivo di un nemico; la guerra è l’unico modo per riscattare i lunghi anni trascorsi nel rispetto dei regolamenti e nelle pratiche militari. I Tartari purtroppo arriveranno troppo tardi, al momento del ritiro. L’attesa è la costante di tutto il romanzo ma esprime bene anche la lunga sofferenza produttiva per realizzare il film, opera voluta da molti, stregati tutti dal racconto originale. Negli anni sessanta fu Vittorio Cottafavi, patriarca di film mitologici, ad aggiudicarsi l’opzione sul libro; per un attimo sembrò vincitore in una contesa che coinvolse anche Vittorio Gassman. Fu poi la volta di Morris Ergas, per la regia di Claude Sautet, e dell’attore Jacques Perrin che nel 1967 comprò i diritti solo per calarsi nei panni del protagonista (come effettivamente successe alcuni anni dopo); infine del bolognese Valerio Zurlini, che aveva già interpretato sul grande schermo due scrittori come Vasco Pratolini (Cronaca familiare, 1962) e Ugo Pirro (Le soldatesse, 1966). Zurlini è un artista di temperamento molto diverso da quello di Buzzati, di differente ispirazione; il suo lavoro su Il deserto dei Tartari tende a privilegiare un tono più illustrativo che creativo, sempre però di grande decoro formale: “il tema buzzatiano dell’attesa si traduce in immagini di raro fascino emotivo, che ben rendono il dramma impalpabile del protagonista e la metafora della condizione umana” (Michele Amato, Buzzati rivivrà a Cortina in una pellicola di Olmi, in “La gazzetta delle Dolomiti”, 3 febbraio 1992, p. 6). La vita di Giovanni Drogo si apre a interpretazioni simboliche, si suggerisce l’invisibile nascosto oltre i fatti, ma manca l’indeterminatezza tipica della scrittura di Buzzati; Zurlini tende a localizzare luoghi e tempi, tanto che la storia originale, da mito esistenzialista, piega verso la tragedia storica: proiettati al confine orientale dell’Impero Austro-Ungarico (verso la Macedonia), assistiamo alla fine di tutta una casta, quell’aristocrazia militare che non sopravviverà alla Grande Guerra.
Lo stesso lavoro di collocazione storica avviene nel successivo film ispirato al mondo poetico dello scrittore e in particolare al suo secondo romanzo, Il segreto del bosco vecchio (1935). Il regista Ermanno Olmi (1931-2018), che aveva lavorato con Buzzati per un ritratto filmato della galleria di Milano, dirige Il segreto del bosco vecchio (1993) operando con grande pazienza; filma per oltre un anno i paesaggi cadorini (tra Cortina e Auronzo) in attesa dei mutamenti climatici, della neve, della giusta sfumatura nei colori, pronto a raccontare il tempo e le stagioni nel loro scorrere. Nella messa in scena preferisce il paesaggio (fotografato da Dante Spinotti) alle persone, piccole di fronte all’immensità della natura, e sceglie di cogliere la dimensione favolistica in un contesto realistico, senza utilizzare particolari effetti speciali (gli animali parlanti vengono semplicemente ripresi mentre voci fuori campo parlano per loro). I cambiamenti più evidenti rispetto al libro sono il taglio di quelle parti poco rappresentabili su grande schermo e la riduzione nella storia del peso del protagonista bambino a vantaggio del personaggio del colonnello Procolo: “A un Olmi sessantenne interessa piuttosto scrutare nell’animo del suo quasi coetaneo protagonista Villaggio, andando a cercare il Procolo che è in lui (o forse in entrambi) e anche, in qualche misura, nei personaggi finora interpretati dall’attore” (Giancarlo Zappoli e Claudia Bersani, Buzzati e il cinema, Milano, BookTime, 2022, p. 44). È l’adulto a compiere un percorso di formazione, ma al contrario, conquistando una natura infantile; la sua conversione alle leggi del bosco si compie infatti con l’atto di ubbidienza a un rituale misterioso che “può essere accettato solo dalle anime innocenti”. Olmi inoltre vede con occhio cristiano il portento pagano di un ecosistema brulicante di folletti, spiriti, animali e venti parlanti; nel piccolo cosmo naturale lasciato in eredità al colonnello Procolo, a patto di non intaccare il Bosco Vecchio, il regista stesso ricorda il passo del Genesi in cui il Creatore consegna all’uomo il mondo, gli raccomanda di godere degli alberi e dei frutti ma di evitarne uno: “Le analogie sono più d’una: oltre alla trasmissione di un mondo che l’uomo può utilizzare in modo armonioso o al contrario può distruggere, ci sono anche qui la tentazione della trasgressione e il castigo che ne consegue […] la natura si manifesta agli uomini con fenomeni spettacolari e inequivocabili adatti alla fiaba, offre un contesto di riferimenti certi dove anche la morte non è un fatto drammatico ma fa parte di questo contesto” (Daniela Pasti, Le favole di Olmi, in “La Repubblica”, 18 agosto 1993, p. 23).
La lezione di Olmi è ripresa da Mario Brenta che, con il suo Barnabo delle montagne (1994, terzo film in trent’anni), costruisce una straordinaria esperienza visiva: “Un’attenzione estrema alla costruzione dell’inquadratura, spesso con un’alternanza tra movimenti di macchina quasi impercettibili e riprese fisse, e l’importanza data al contesto naturale, sia sul piano visivo che su quello sonoro, che vede sin da subito sottolineare anche il più piccolo rumore” (Giancarlo Zappoli e Claudia Bersani, Buzzati e il cinema, Milano, BookTime, 2022, pp. 52-53). I campi lunghi e lunghissimi offrono un’immagine delle montagne di grande suggestione, cornice ideale per far vivere Barnabo, la guardia montana in cerca di riscatto dopo un’azione poco eroica. Il protagonista Marco Pauletti, nella vita vero vigile ambientale di Belluno (città, quasi a far quadrare il cerchio, da cui proviene anche Buzzati), si muove a proprio agio in una natura appartenente al passato dello stesso Brenta; il regista ricorda sempre le lunghe camminate che da bambino amava fare con il padre: “luci, rocce, colori, mi hanno riportato a un tempo lontano che per tanti anni avevo riposto in soffitta”. Anche i film tratti da Buzzati hanno portato lo spettatore, partendo dalla contemporaneità di Un amore, indietro nel tempo, in un percorso al contrario nella cronologia delle sue opere (Barnabo delle montagne è infatti il suo primo romanzo); con il film di Brenta, lo spettatore riesce veramente a rispecchiarsi in ciò che rende magica la scrittura di Buzzati… l’universalità di ogni racconto: “Un’immagine, un particolare, un suono, uno sguardo, un viso, rimandano sempre, in questo film, a qualcosa che appartiene già alla memoria collettiva e ne propongono la riattualizzazione quasi costante” (Attilio Coco, Barnabo delle montagne, in “Segno Cinema”, n. 68, luglio-agosto 1994).
Questo richiamo alla memoria viene ripreso anche nel recente La famosa invasione degli orsi in Sicilia (2019), realizzato dall’illustratore e fumettista Lorenzo Mattotti (1954); il testo originale (apparso nel 1945 sulle pagine del Corriere dei piccoli), che nasceva posteriormente alle illustrazioni dello stesso Buzzati, ha trovato nell’arte di Mattotti una fedeltà grafica e tematica che ne preserva il mito: strutturando la storia come racconto nel racconto, la pellicola dichiara in maniera esplicita la volontà di porsi in continuità con il modello, che può così continuare a parlarci a distanza di decenni e attraverso linguaggi diversi.